Lauro

Quanto è brutto il diario di Chiara Ferragni.
Un mattone.
Come un mattone, pesante.
Sedici mesi.
Praticamente, dentro niente di niente, tutte pagine uguali, io mi ricordo che quando andavo a scuola, e ancora adesso con l’agenda, quella di carta, che continuo a usare (e ne ho una raffinatissima, francese, con il filo delle pagine d’oro), il lato più divertente era ed è andare a vedere le diverse sezioni, ci fu il periodo della Quo Vadis, non so perché usavamo tutti quella, che aveva solo lo spazio degli appuntamenti, figuriamoci, per gente come noi che sull’agenda ci scriveva, che te ne facevi di quel francobollo, dunque, si metteva tutto nella Dominante.
Poi sono arrivate le Moleskine, praticamente le pagine bianche di cui tutti andavamo in cerca.
Io sono al numero quaranta (40) del mio Journal.
L’altro giorno, visto che sono in fase liberatoria, ho detto adesso butto al secchio le prime venti (20), però poi ne ho aperta una, c’era il diario di un viaggio in America, nemmeno scemo, ho detto non è che sono scema adesso, quindi, se proprio voglio fare pulizia, butto uno scaffale di cataloghi d’arte fatti male e mi tengo le memoria della vita mia.

Ma, stavamo dicendo, il diario dell’influencer.

Diario Chiara Ferragni

Strano, che una fata turchina come lei abbia fatto una cosa così brutta.
O ha fatto una cosa brutta forse proprio perché lei si legge come una fata turchina.
Su tutto domina l’occhio.
Qui ci sarebbe da aprire un tavolo (o, meglio, tutta la mobilia di un appartamento).
A me l’occhio da solo fa impressione.
All’Accademia di Belle Arti di Napoli ho avuto per un anno una studentessa, che stava in prima fila, dunque, la vedevo benissimo, che disegnava solo occhi, li disegnava su un quaderno mentre io facevo lezione.
Continuamente.
E continuamente parlava, disturbando.
La volta che, esasperata, le chiesi perché la madre non se la teneva a casa, mi rispose che la madre non la sopportava.
La ragazza suscitava in me un sentimento misto di pena e di rigetto.
L’aula aveva fra l’altro grandi finestre e stava a un piano alto.
Le volte che ho pensato di utilizzarle, non ve le sto a contare.
C’è un occhio, enorme, per la precisione apotropaico, ovvero capace di allontanare o annullare un’influenza maligna, nel Rilievo Torlonia con raffigurazioni simboliche.

Rilievo votivo con raffigurazioni simboliche, 180-190

Esso non ha alcun rapporto con il resto, che mostra il faro di Ostia e una nave, con figure di uomini.
Poi, in una decorazione fitta, ci sono pure gli elefanti, sulla destra, che, in quadriga, sormontavano la porta triumphalis di Roma, ovvero la porta della capitale che si incontrava arrivando da Ostia.
Venti chilometri di distanza. Ma lasciamo perdere il lato non realistico del rilievo, che mette insieme monumenti lontani.
A noi interessa l’occhio, e l’occhio fa impressione.
Ancora occhi isolati compaiono nella sequenza dell’incubo del film di Alfred Hitchcock del 1945 che si intitola Spellbound e che da noi esce come Io ti salverò, titolo che non c’entra niente con quello originale, che significa qualcosa di simile a stregato.

Alfred Hitchcock, Spellbound (Io ti salverò), 1945

Da noi funziona, evidentemente, la sindrome di Florence Nightingale, che faceva l’infermiera.
La scena è stata disegnata da Salvador Dalì, che si capisce che pure lui, tale e quale alla mia studentessa, aveva dei problemi.
Il diario di Chiara Ferragni è accompagnato da cartelline e quaderni, tutti con l’occhio e tutti in vendita accanto alla cassa del supermercato.
Ecco perché li ho visti.
Diario, cartelline e quaderni sono di un’azienda fondata nel 1839, che produce una carta di alta qualità e che propone « un percorso in continuo divenire, che necessita di un lavoro intenso e quotidiano».
E allora perché qualcuno non dice a questa benedetta ragazza e all’azienda che prima di mettere quell’occhio su tutto avrebbero dovuto dare un’occhiata a come l’occhio è stato utilizzato nell’arte e nel cinema.
Uno storico dell’arte, vi serve, che vi spieghi come va il mondo.
Altrimenti, come influencer, e pure come azienda, finisce che fate cose delle quali potreste (meglio, dovreste) pentirvi.

Una casa è una casa.
Una casa è una casa e non è un albergo.
Non è una biblioteca.
Non è un negozio di mobili, né di vestiti.
Non è un deposito.
Non è un garage.
Una casa non è una discoteca, non è un ristorante, non è un cocktail bar.
Una casa deve sembrare una casa e non una cosa diversa.
Partendo da questo concetto, ogni casa, anche la più modesta, ha un dentro, un fuori, ha le ali, proprio come un castello, ha una zona giorno e una zona notte, ha uno spazio verde, pure se è minuscolo, ha i servizi, l’area della biancheria, gli svaghi, i passatempi.
Ha il suo cinema.
Ha la sua sala da concerto.
Ha il suo deposito per i soldi, tale e quale allo zio Paperone, solo che esso può essere anche una busta nascosta nelle lenzuola, come faceva mia madre, che metteva le banconote belle piegate e quasi stirate al riparo in un posto evidentemente importante.

Chi ha detto che il denaro non dà la felicità

Una casa ha la sua cassaforte, pure se è un angolo di un cassetto con la scatolina degli orecchini buoni.
Una casa ha un ingresso, che è anche un’uscita.
Ha una targhetta fuori dalla porta (la targhetta è importante).
Una casa ha un affaccio da qualche parte.
Una casa ha un indirizzo, una cassetta della posta.
Ogni casa ha la sua storia e, se vi mettete in ascolto, ve la racconta.
Se volete sapere a che animale assomiglio, io sono un paguro.
(A parte l’aspetto fisico, non sia mai).

Pagurus bernhardus

E la casa è la mia conchiglia.
Ho fatto dei lavori in casa e ultimamente ho dotato la mia casa di una serie di cose nuove: lo scaldabagno; le tende del mio studio; il gruppo della cucina, nel senso del rubinetto del lavello;  il tritatutto; la pentola di ghisa; la padella con il cuore in rame.
Non è nemmeno perché ho speso un sacco di soldi, sono di quelli che pensano che i soldi vanno e vengono e che vanno spesi.
Diciamo che ho investito dei soldi per stare in una casa più accogliente.
Se poi diventa una trappola, nel senso che io, che già sono una poco mondana, da casa mia non uscirei più (e mi capita di non uscire da casa anche per tre giorni di seguito, basta avere qualche genere di conforto, tipo una buona scorta di bottiglie di vino ottimo), insomma, se poi casa mia diventa una casa trappola, sapete che vi dico.
Ben venga.
Le trappole non ti fanno più muovere, però è perché ti hanno attratto con un’esca.
E l’esca è sempre attraente.
Altrimenti che esca sarebbe.

Solo uno che non ha guardato bene può sostenere quello che sostiene il ragazzo del mio parrucchiere.
Anzi, mi viene in mente che abbia guardato più che bene e che abbia capito tutto.
Il ragazzo del mio parrucchiere è uno piccoletto e con i denti radi, con caratteristiche d’artista, sa di musica e di calcio e fa bene il suo lavoro.

Simone & Nelson

Però quando parla di Lauro mi ricorda il racconto di Simone de Beauvoir che, a Roma con l’amante americano, un uomo decisamente atletico, assistette alla scena di un cameriere locale bassino e volenteroso che disse a lui che cosa doveva mangiare per crescere ed essere in forma.

E insomma, che cosa dice il ragazzo di Lauro.
Che lui non è che sia granché e che, soprattutto, il problema suo è che non è definito.
Dice proprio così, definito.
Termine che usa per parlare di sé, delle proteine che compongono la sua dieta, della forma fisica che vuole raggiungere.
Io sono una che guarda: a me Lauro sembra definito benissimo.
(E se non ho ribattuto è stato solo perché io stavo lì, come diceva mia madre, per farmi i capelli. Non per altro).
Devo però trovare il modo di fare entrare Lauro nelle grazie del ragazzo del mio parrucchiere.
Entrambi sono pieni di tatuaggi.
Ora, come sappiamo, chi si somiglia, si piglia.
La prossima volta che lo vedo, sto parlando del ragazzo, ho deciso di fargli notare che Lauro in faccia c’ha scritto, anzi, c’ha proprio tatuato, Pour l’Amour.
Mi veniva in mente che è probabile che il ragazzo non abbia capito che significa.
Insomma, gli farò la traduzione e stavolta, sicuro, finisce che ammette di ammirarlo.
Dirà che sono, siamo, tutti romantici.

E che Lauro, a ben guardarlo, è definito non dico meglio, ma almeno quanto lui.

Lauro