Édouard Boubat, Plutôt la vie, 1968

Guardo venti minuti di partita.
Non ho ancora visto il calcio sul televisore nuovo.
Del resto non guardo niente, faccio un passaggio solo per inserire uno dei miei film e ci sono sempre e solo quiz dementi.
Forse è l’orario.
Anche se cambio continuamente orario per vedere uno dei miei film.
Guardo venti minuti di partita e vedo due gol.
In campo, nemmeno un bel ragazzo.
Ci sono dei neri che sono troppo neri.
Poi ci sono gli slavi, che non mi piacciono per niente, sembrano tutti dei muratori, senza l’appeal che hanno loro.
Non vedevo Ronaldo da un po’, l’avevo lasciato infortunato sul campo, mi aveva fatto stare malissimo perché piangeva.
L’altro giorno era al piccolo trotto, l’ho letto su una cronaca, comunque l’hanno inquadrato un momento, non aveva nulla di preciso nei capelli, insomma, da guardare c’era poco o niente.
Tutti gli altri, quelli che i capelli li avevano, compreso l’arbitro, che fischiava come un ossesso, avevano le tempie rasate e dei ciuffi, o riccioli, sulla sommità della testa.
Anche la new entry del supermercato ha i capelli così. Siccome è biondo, i suoi sono anche mesciati.
Si chiama Samuele ed è un belvedere più dei calciatori dell’altra sera.
Stiamo facendo amicizia.
È lento, ha fatto l’istituto alberghiero e non ha imparato niente.
Ha lavorato un po’ come barista, poi è entrato al supermercato, dove lo trovo sempre che sistema i dolci.
Giorni fa stava però con un vassoio di yogurt in mano, che doveva mettere nel frigorifero.
Però ci siamo messi a parlare e gli yogurt stavano lì che prendevano la temperatura ambiente.
Da Samuele, che ha vent’anni, ho imparato che la cosa più divertente al mondo è andare con gli amici la sera a mangiare il pesce al mare: Torvajanica o Nettuno.
Distanza da Roma, rispettivamente 37 e 67 chilometri.
Intuisco che Nettuno è una meta più esotica.

A Nettuno c’è la tomba di Maria Goretti, mi ricordo che mi ci portarono da bambina in uno dei rari spostamenti che non erano il Piemonte e la cascina dei nonni.
Mi ha stupito ritrovarla nel libro che sto leggendo.
L’autrice racconta di come i maschi e le femmine fossero sempre separati.
I maschi facevano rumore, non piangevano (strano che pianga Ronaldo), erano sempre pronti a lanciare qualcosa, pietre, castagne, petardi, palle di neve e dicevano parolacce.
Le femmine non li dovevano imitare, preferivano i giochi calmi e sghignazzavano sentendo parlare di Maria Goretti, che aveva preferito morire piuttosto che fare con un ragazzo quello che loro erano impazienti di avere il diritto di fare.
Le femmine sognavano di avere dei seni e dei peli e un panno con del sangue nella loro culotte.

Il libro che sto leggendo è bellissimo, anzi, è il libro più bello che ho letto in vita mia.

Annie Ernaux, Les Années, 2008

Infatti è tutto sottolineato.
Qui finisce che smetto di sottolinearlo perché tanto è inutile.
Come ho sempre spiegato ai miei studenti, se sottolinei tutto, è come se non sottolineassi niente.
Che effetto mi fa una scrittrice che scrive così bene.
Mi fa un bell’effetto.
Non mi taglia le gambe, non mi fa sentire incapace, non mi fa passare la voglia di scrivere.
Anzi.
È uno strano meccanismo, ogni tanto mi capita di parlarne con qualcuno.
Ci sono persone e cose che ti esaltano e ci sono persone e cose che ti annientano.
L’esaltazione è il medesimo processo che innesca il pepe sui cibi, ciascuno di essi tira fuori il suo sapore.
L’annientamento, che volete che sia. Lo dice il nome medesimo: è il niente.
Ci sono scrittori che ammiro in modo profondo, forse gli scrittori sono le persone che più ammiro in vita mia.
Però è vero che per definizione la letteratura è plurale e che esistono tantissime scritture diverse: Hemingway è asciutto, Elsa Morante volge volentieri al barocco, Flaubert è immenso, Zola ha il dono di leggere come nessuno quello che ha sotto gli occhi.
In queste tantissime scritture diverse, ogni scrittura è possibile.
Inoltre ho imparato a non preoccuparmi se le cose che dico io sono state già dette da altri.
Ho imparato che non importa.

Prendo lezioni da tutti.
E le prendo volentieri.

Invece mi rendo conto che il grande chef mi annienta.
Oggi sono andata a via Veneto a prendere la mia rivista francese.
Alla fine ci sono sempre delle schede con le ricette di cucina.
Alcune le colleziono.
Vado inoltre orgogliosa di un cofanetto con dentro la riedizione di trecento schede storiche, che fu prodotto in occasione del quarantesimo anniversario della prima pubblicazione e che mi affrettai ad acquistare.
È un bellissimo oggetto rosso fiamma, che accende la mia cucina.

Elle Fiches Cuisine, 2009

Dentro c’era anche un po’ di spazio per aggiungere schede nuove, però lo spazio è finito e le schede che colleziono adesso stanno un po’ dappertutto, in giro su qualcuno dei miei tavoli e in alcune cartelle.
Realizzo tutte le ricette?
Non ci penso per niente.
Anche le più semplici sono complicatissime, almeno per le mie (limitate) risorse.
Però le leggo e traggo da esse ispirazione, soprattutto per quanto riguarda la presentazione.
Dicevo che oggi ho comprato la mia rivista.
Le schede erano a cura di uno chef che ha aperto il terzo indirizzo nel quartiere des Batignolles.
Siamo (loro sono) a Parigi e il quartiere des Batignolles è famoso per via degli artisti che lo hanno abitato o che lì avevano il loro atelier.
Ecco un esempio.

Henri Fantin-Latour, Un atelier aux Batignolles, 1870

Al cavalletto c’è Manet, che è considerato un capofila.
Poi ci sono Monet, l’ultimo a destra, e Renoir, con un cappello e la testa circondata da una cornice, proprio come un quadro, una trovata bellissima.
Zola, che è il portaparola della nuova pittura, è ritratto con una mano in tasca e con una sigaretta nell’altra.
(Dovrò tornare sui gesti che attengono al fumo. Sono, letteralmente, un mondo intero, tutto da indagare).
Quello molto alto di profilo è Bazille, che muore a ventinove anni nella guerra franco-prussiana.
In una mostra ho visto la sua divisa e si sosteneva che lui avesse cercato la morte, aveva in sé qualcosa di tragico.
Resta che in quei pochi anni che ha vissuto ha fatto cose talmente importanti, che il dolore per questa perdita lo sentiamo ancora oggi.
Il dipinto ci mostra tutti questi giovani uomini con un umore serio e in un ambiente sobrio.
Quello che stanno facendo, ovvero rinnovare l’arte e, di conseguenza, il mondo, non è cosa da poco.
Anzi e a dirla tutta: è una cosa grandissima.
(Il dipinto è a firma di un pittore che è squisito e che è stato per tutti, me compresa, un compagno di strada che ha documentato quello che stava accadendo in quegli anni magici).

Ma, stavamo dicendo, il terzo indirizzo dello chef aux Batignolles.
L’account Instagram presenta il locale come Café Contemporain.
E in quel caffè si fanno cose come questa.

Caducée, Pavlovas coco, fraise et citron vert

Già a leggere gli ingredienti uno si smarrisce: albumi, zucchero, glassa, polvere di cocco, cioccolato bianco, gelatina, latte di cocco, fragole, noce di cocco fresca, buccia di limone.
Dico solo che le meringhe, perché di meringhe si tratta, devono cuocere tre ore in forno a 85°.
La temperatura minima del mio forno è di 140°, quindi, si capisce che la mia non è negligenza, è proprio un problema di attrezzatura.
Mi toccherà andare a Parigi a mangiare le Pavlovas.
Ma se non ti piacciono i dolci.
Infatti.
Ma mi piace tantissimo come lo chef presenta la sua creazione: «Una messa in scena ludica che sboccia come un fiore nel piatto».

Ecco uno strano caso in cui l’emulazione è fuori campo ma l’ammirazione ci sta tutta.
Soprattutto per le parole.

  • E, a proposito di parole, il plutôt la vie viene da André Breton, è una scritta famosa che è stata fotografata su un muro durante il maggio 1968 e, come è noto, visto che è noto ma poco importa, si può tradurre con «piuttosto la vita», ma anche, e meglio, con «la vita nonostante tutto».
    Ma il concetto rimane quello del titolo.
    Prima, si vive.
    Poi, viene tutto il resto.
    (Trovo anche degno di menzione il gatto che guarda dalla finestra. Chissà che stava guardando. E, soprattutto, chissà che vita ha fatto).