La bella estate.
Lo diceva Pavese.
Poi, però, bisogna vedere da vicino, come diceva invece quel mio studente, e lo diceva a proposito delle donne.
Dunque, andiamo a vedere.
L’estate, se non altro, è una stagione propizia alla scrittura, è lenta, spesso un po’ vuota, suggerisce riposo e risveglia ricordi.
Comincio, allora, oggi un nuovo ciclo, come mi è capitato di fare in passato: sia in questo periodo, con QUESTO SENTIMENTO DELL’ESTATE, dal bel film di Mikhaël Hers, che con L’INVENTARIO, che citava Prévert.
Ho fatto poi un ciclo fuori programma dal titolo CORONA BLUES, in tempo di confinamento.
Un ciclo nasce e muore da solo, io non devo fare niente, devo solo mettermi in ascolto.
E mettere giù quello che sento.

Allora, REPLICA: perché.

Alla radio fanno ormai solo repliche. Ma l’avverbio è impreciso, perché alla radio hanno fatto repliche di continuo, secondo loro perché non c’erano spettacoli dal vivo, secondo me perché non hanno idee.
Una replica ha valenze molteplici, può essere piacevole, irritante o rivestire il carattere clamoroso dell’autogol, un po’ come quelle foto che in tanti ti fanno vedere, avevano vent’anni e volevano conquistare il mondo.
Poi, però.
Le repliche dei programmi più vecchi mostrano l’impoverimento progressivo del gusto, lo svuotamento di significato, la mediocrità del punto cui siamo arrivati.
Esattamente come tante altre cose, per esempio le riviste.
Per esempio la scuola.
Per esempio, tutto il resto.

Replica come gli indumenti e gli accessori, e ultimamente anche i profumi, che Martin Margiela introduce dal 1994 in ogni linea da lui disegnata. I pezzi Replica rappresentano l’interesse della maison «in indumenti e accessori altamente funzionali ed emotivi».

Etichetta Replica

Essi derivano da originali trovati attraverso il mondo, riprodotti meticolosamente e recanti ciascuno all’interno un’etichetta che descrive lo Stile, la Provenienza e il Periodo.
C’è, dietro tutto questo, una grande attenzione portata al processo creativo e alla relazione che tutti abbiamo con un indumento.
Voi pensate alla possibilità di ritrovare un abito che avete amato, una giacca che avete indossato con disinvoltura e a tutto quello che una foto risveglia in questo senso.

Maison Martin Margiela, Giacca nera di sartoria Replica di un abito da donna, ’50

Se lo fa un fashion designer, il processo diventa collettivo.
Se lo facciamo noi per nostro conto, sentimentale.
Vi propongo una giacca anni ’50 che starebbe bene nel mio guardaroba, all’interno del quale ce ne sono almeno quattro simili.
Questo perché sono un’abitudinaria che non apprezza il cambiamento, perché i sussulti della moda mi indispongono e perché, sostanzialmente, ho sempre una relazione nostalgica con tutto quello che indosso.
Pure se è un capo nuovo, cosa rarissima, se mi piace e se mi sta bene, è come se lo portassi da sempre.

Replica come le opere di Marcel Duchamp rifatte da Marcel Duchamp perché gli originali erano andati perduti.

Marcel

Se l’opera è rifatta dall’autore, è una replica; se non è rifatta dall’autore, è una copia.
Nuance, manco troppo piccola.
E perché un autore rifa una sua opera.
Certamente per motivi di denaro, ma anche, perché no, perché ne ha nostalgia, tale e quale a coloro che rifanno gli abiti.

Replica a teatro di uno spettacolo.
Replica come risposta, spesso conclusiva.
Replica di un terremoto, ovvero di un evento che scuote.
Ci sono repliche nell’elettronica, nella statistica e nella linguistica.
Dunque, ci possono essere repliche pure in un blog.

E non devo stare a ricordare che ci sono i replicanti, che sono come noi, però in meglio.
Che almeno sanno qual è la loro durata, laddove per noi il nostro limite temporale resta ignoto.
E che hanno un’ambizione urgente: quella di avere più vita.
E perché vogliono avere più vita: perché hanno sviluppato emozioni e sentimenti, perché i ricordi loro innestati a loro sembrano autentici e figuriamoci se possiamo smentirli noi, che quando vediamo cinema o leggiamo letteratura pensiamo di essere i protagonisti di quelle storie.
Come se avessero innestato in noi emozioni e sentimenti che riconosciamo come nostri, come sono nostri gli abiti e i ricordi.

***

In questi giorni cade il compleanno del mio televisore.
L’ho acquistato un sabato e il lunedì è venuto il tecnico a installarlo.
Oggi è il giorno a cavaliere, quello in cui un anno fa avevo portato lo scatolone in salotto e me lo guardavo.
Senza aprirlo, tanto mi metteva soggezione.
Tutto ciò per un televisore normale, niente a che vedere con quegli schermi giganteschi che hanno tutti e che trovo dappertutto, visto che, nel giro di poco, case anche piccolette si sono trasformate in contenitori di dispositivi sovradimensionati, secondo il mio oculista nocivi per gli occhi, visto che ci sarebbe una distanza da rispettare fra la diagonale dell’apparecchio e la postazione dello spettatore.
(Ma non si chiamava piccolo schermo).
Stando così le cose, e le cose così stanno, il mio televisore è perfetto per dove sta, e sto parlando della stanza più grande della casa, che arriva a 19 mq, superficie che a me sembra di tutto rispetto.
Resta che coltivo il sogno di una sala cinematografica con due sole poltrone a bordo e uno schermo bello grande e tutto il resto, tutto privato e senza la scocciatura dell’altro pubblico.
Ammetto che coloro che dicono che bello lo spettacolo collettivo mi fanno un po’ sorridere, credo che non sappiano quanto è bello lo spettacolo privato.
Certe volte non capisco, stiamo parlando di cinema, non di teatro, cioè di un sistema di riproduzione di storie meccanico, cioè fatto da una macchina. Il film mica si emoziona.
Anche se certe volte mi sembra emotivo ed emozionante.

Motivo in più per goderselo senza traffico.

Non guardo la televisione, ho smesso molti anni fa perché trovavo tutto volgare.
Baudelaire scrive in quello che è a tutti gli effetti un journal, anche se di genere ben diverso: «Non comprendo come una mano possa toccare un giornale senza una convulsione di disgusto» (Mon coeur mis à nu, 80).
E dire che lui era «un enfant de la presse», visto che aveva quindici anni nel 1836, quando videro la luce i primi quotidiani di grande formato e grande tiratura.
Più o meno nello stesso modo, io non capisco come si possa guardare la televisione senza sentirsi a disagio.
Dunque, prima degli Europei e come già accennato, in quasi un anno avevo totalizzato quaranta minuti di televisione, spesi quasi tutti a vedere come funzionavano i tasti del telecomando e senza mai guardare niente.
Perché secondo me non c’era niente da guardare.
E allora che ci facevi col televisore.
Ci guardavo, e ho intenzione di guardarci, i miei film, quelli su dischetto, che vanno nel lettore nuovo, visto che ho ricomprato anche quello.
Dunque, questo è un doppio compleanno, il secondo importante tanto quanto il primo.
Sempre in attesa della sala cinematografica privata, con spettacoli solo in versione originale. E senza traffico.
Anche in totale décalage, come piace a me, con serie che già hanno visto tutti e, questo è il progetto più recente, tutto l’Hitchcock che mi manca, per esempio quello della fase di passaggio fra Inghilterra e USA, bellissima.
E quando la trovi al cinema, questa roba.

Adesso guardo le partite, ma le guardo come si fa quando ci sono rischi, prendendo precauzioni.
Per esempio, accendendo il televisore solo un minuto e mezzo prima del collegamento con lo stadio, risparmiandomi i commenti da studio, che trovo così terribilmente televisivi, e parecchia pubblicità.
Medesima cosa.
Approfitto qui per una parola di lode dedicata a coloro che fanno il commento tecnico, inquadrati sessanta secondi con cuffie e microfoni e poi presenti solo in voce.
Una presenza perfetta.

Alberto & Antonio

Un paio di persone che capiscono il calcio hanno minimizzato, quelli non sono niente di che, sono un pleonasmo, ma io ho detto non è vero, sono bravissimi, quelli che ho seguito io, che sono quattro in tutto, parlano un ottimo italiano, con tutti i congiuntivi al posto giusto e meno male che ci stanno.
Perché io già mi sono distratta a vedere come sono i giocatori e che facce hanno: da signorini, modaioli, guerrieri, atleti, morti di fame o figli di mamma.
Poi un altro po’ di tempo l’ho perso a guardare le divise, se sono eleganti e se i colori sono di mio gusto.
Poi a capire chi deve segnare e da che parte.
Per non dire di quando, appena io mi sono abituata, questi al secondo tempo fanno il cambio di campo.
Cosa che rilancia la necessità di comprensione, disorientante, anche perché so come va il mondo, è passata circa un’ora, per cui il campo, proprio come la nostalgia che sappiamo, non è più quello di un tempo, fosse solo per le condizioni di luce.
Quindi tanto valeva restare ciascuno nella sua parte.
Comunque, se non ci fossero quelli del commento tecnico, con il loro commento e con la loro tecnica, a spiegare tutto, ogni passaggio, sfumatura, fallo, rimessa in campo, dubbio, aspettiamo il VAR, calcio d’angolo, i gol no, perché quelli li vedo benissimo, se non ci fossero loro, dicevo, io sarei persa.
Non solo.
Come sempre mi accade con una persona interessante, comincio a sentire un movimento in testa, insomma, mi si aprono delle finestre.
E ho notato che questo mi accade soprattutto se chi parla ha un passato da calciatore.
E mi viene da chiedermi che cosa si prova a veder giocare gli altri, se c’è nostalgia pure qua, o un’invidia comprensibile, o partecipazione paterna alle sconfitte e ai trionfi, oppure se quel capitolo là è chiuso e pure questo è bello.
Non fosse che perché la tua presenza dà un senso al gioco, lo sviluppa oltre quello che si vede, comprende ricordi, aneddoti, riflessioni sul carattere di chi sta in campo, una montagna di fatti di cui io non sono a conoscenza.
Ho pensato più di una volta che questi commenti tecnici, secondo qualcuno così a margine, sono una specie di buon esempio che dovremmo seguire tutti per altre situazioni, che ne so, il lavoro, le relazioni, le persone che incontri, mi sembra che molto di rado si arrivi ad analisi così dettagliate e sapienti dei fatti.

Insomma, mi è venuto in mente che se ragioni su quello che vedi e che senti, è meglio, è come se la vita ti desse diritto di replica.
E questo significa che la partita è aperta, tutta da giocare.
E, almeno per l’estate bella che c’è intorno, questo mi sembra lo stato d’animo giusto.
E che voglio coltivare.