Maggie Cheung in Irma Vep, Olivier Assayas, 1996

La prima cosa: lei è bellissima.
Una donna la guarda e si chiede se per caso lei non sia bellissima anche per via di quello che ha indosso, un indumento che non è frequente trovare nel guardaroba di una persona che non fa l’attrice e che non frequenta ambienti che definiamo qui laterali.
Lei è bellissima e quello che ha indosso, che nel film è chiamato corset, ma che è una tuta completa che la ricopre dal collo alle caviglie, è un capo di abbigliamento in latex, che lei e la costumista sono andate a prendere in un sex shop, reparto SM.
In inglese il juste-au-corps si chiama catsuit.
Lei è costretta in una tuta che le impedisce di respirare, ma che le fa seni di dimensione perfetta, vita sottile, fianchi disegnati nel modo giusto.
Girato in Super 16, camera a mano, il film è anche in presa diretta, così noi sentiamo il rumore del latex quando lei si muove.
Verlaine aveva parlato di un abito blu lungo in seta che faceva frou-frou.
Noi, che siamo moderni, ascoltiamo il latex che fa ciaf-ciaf.

Il film è bellissimo e non so perché ho aspettato tanto a vederlo.

Maggie Cheung, star del cinema di kung fu di Hong Kong, arriva a Parigi per interpretare la parte di Irma Vep, che già fu di Musidora, diva del Surrealismo, in un remake de Les vampires di Louis Feuillade, film nel 1915.
Non conosce una sola parola di francese.

Louis Feuillade, Les vampires, 1915

Dunque, è più o meno nella mia condizione, visto che, pur conoscendo io il francese, non capisco quasi niente di quello che si dicono quelli della troupe, tutti sovraeccitati, aggressivi uno con l’altro, che parlano un argot a me ignoto, che si mandano reciprocamente e di continuo a dar via l’anima, che fumano come ciminiere dappertutto, pure a tavola, bevono, litigano, alcuni sono pure tossici.
Qualcuno spaccia sul set.
La costumista è bisessuale.
Ma fanno insieme un film, sotto la direzione di un regista che è quello che sembra avere più problemi di tutti: con le idee poco chiare, mai contento, una sera lo troviamo che ha aggredito la moglie, ha la polizia in casa e viene sedato a suon di calmanti.
Dopo dieci minuti ho smesso di preoccuparmi se non capivo, mi sono aggrappata ai sottotitoli francesi che compaiono quando tutti provano a parlare in inglese con Maggie, che cerca invano il suo posto per tutto il film e che è comunque incuriosita dall’esperienza.
L’identificazione con lei è avvenuta in morbidezza, tutta, dallo spaesamento al lattice.
Realizzazione di un progetto portato avanti tambour battant, con una sceneggiatura messa giù in dieci giorni, un mese di riprese, un montaggio fulmineo, Irma Vep è il sesto lungometraggio di Olivier Assayas (la s si pronuncia), regista che incontro di continuo, che ho visto quasi tutto e che mi ha aperto orizzonti infiniti, e non solo sul cinema.
Irma Vep me l’ero tenuto da parte.

Olivier

Facendo bene, perché c’è sempre una logica nelle cose, anche quando non sembra, e finalmente ero pronta ad affrontare il suo film culto.
Assayas è stato redattore dei «Cahiers du Cinéma» e nel 1984 ha fatto un viaggio in Oriente, dal quale ha importato in Francia il cinema cinese, quello alto e quello basso, tutto, comunque, completamente nuovo per noi, praticamente un altro universo.
Qui lui intreccia le sue esperienze e va alla ricerca «degli elementi essenziali dell’arte cinematografica: il meraviglioso, il fantastico, l’erotismo».
Vuole resuscitare questa alchimia, che stava tutta lì, crimine e sensualità, in un film capolavoro dei primi tempi del cinema muto.
(E il cinema muto deve essere muto, non serve l’accompagnamento del pianoforte, chiosa il regista che non riesce a creare).
Cinema come sogno, dunque, film cinefilo che scambia la realtà con la finzione e fa vedere un film nel quale si racconta come si fa un film, film intriso di omaggi al cinema, quello francese, qui interpretato dagli attori prediletti della Nouvelle Vague, Jean-Pierre Leaud e Bulle Ogier, e quello tedesco, qui rappresentato da Lou Castel, che ha avuto stretti rapporti con Fassbinder.

Lei è strana e straniera, poetica, lei è un corpo capace di far rivivere un fantasma, è turbata ma disponibile, stato d’animo, il suo, che mi sembra auspicabile, certo, difficile da vivere, ma forse l’unico in grado di favorire una delle cose più importanti nella vita: gli incontri.
Lei è bellissima, ha i capelli neri e l’incarnato di porcellana, nei compléments del dvd c’è un ritratto filmato che le ha fatto Assayas per la Fondation Cartier, istituzione molto attiva nell’arte contemporanea.
In questo ritratto lei si strucca.
Da quando l’ho visto non sono più riuscita a fare la toletta della sera, detergente, risciacquo, asciugamano bianco, senza soppesare ogni mio minimo gesto, lo specchio, il verso del balsamo struccante, i punti in cui si insiste e si massaggia, il getto d’acqua del rubinetto.

Potenza e meraviglia del cinema, che ti insegna come stare al mondo.

E inoltre.
Vivissima polemica con il cinema americano, un sacco di soldi e un sacco di décor per risultati minuscoli.
Tentazione di guardare a Hong Kong per rinnovare il cinema di casa; lo ha fatto Hollywood (Hard Target, Senza tregua, 1993, di John Woo, con Jean Claude Van Damme), perché non proporre un’alternativa.
Polemica, stavolta tutta in ironia, pure con il cinema francese, con questi intellettuali che si guardano l’ombelico e fanno cose noiosissime.

Piccolo capolavoro d’invenzione, Irma Vep si interroga anche sul ruolo e sul destino del cinema in un mondo sempre più globalizzato.

(Vedesse adesso).

E, ancora in quest’ottica, la cena con a tavola parecchi dei personaggi.
Che, come abbiamo detto, mangiano e fumano, tengono la sigaretta con una mano e con l’altra la forchetta, bevono, come sempre fanno i francesi nei film, vino rosso, parlano, parlano come ossessi, parlano di tutto, parlano a otto, poi a quattro, poi a due, poi a zone, poi qualcuno si alza per sgombrare la tavola e va a parlare in cucina.

Che facevo io nel 1996.
Qualcosa di simile.
Cenavo con delle persone e parlavo.
Parlavo a otto, poi a quattro, poi a due, poi a zone.
Parlavo e mi sentivo in dovere di animare la serata.
Anche se ho sempre evitato di sgombrare una tavola che non era la mia perché sono convinta che così si complichi il servizio.
Anche se di fumare avevo smesso da un pezzo.

E, in tutto questo.
La bellissima sequenza in cui lei, in albergo, con il suo costume addosso, esce dalla sua stanza e si insinua in un’altra in cui c’è una donna nuda, con un corpo meno bello del suo, che litiga al telefono con un amante.
Sulla toletta ci sono dei gioielli.

Maggie

Lei li ruba.
Ovvero fa quello che faceva la Irma Vep del muto, che era in realtà la creatura carismatica che dominava una gang di malfattori che si presentavano come vampiri.
Lei ruba i gioielli e poi se la svigna sui tetti, e comincia a piovere, e lei ha mosse davvero da gatta, e uno (una) pensa adesso scivola, adesso le si bagnano tutti i capelli, che è la cosa che io penso sempre quando un acquazzone mi sorprende, ma lei certamente si bagna ma non scivola per niente, anzi, in quell’avventura solitaria e notturna, ma con il costume di scena, lei ha trovato uno spazio di libertà, che le consente pure di affacciarsi, di guardare nel vuoto e di gettare il suo bottino nel cortile interno dell’albergo.

I tetti di Parigi.

Jacques Rivette, Paris nous appartient, 1961

Lasciamo perdere che sono anch’essi una citazione, in questo caso di un film di Rivette dal titolo che basta a noi e a se stesso: Paris nous appartient.
Che significa che Parigi è nostra.
Ma il film, nonostante i tetti, è inguardabile, ho provato un paio di volte, poi mi sono accorta che ero d’accordo con quella faccenda degli intellettuali che raccontavano quello che succedeva intorno al centro della loro pancia.

Poco male.

I tetti rimangono bellissimi, soprattutto se percorsi da una creatura sospesa fra realtà e sogno, come sempre è il cinema, creatura che nella sequenza finale, con l’intervento di segni grafici sulla pellicola, il sogno lo elettrizza, creatura che diventa autentico funambolo che racconta la purezza.
E la meraviglia.

IRMA VEP è l’anagramma di VAMPIRE, ce lo dice un’animazione eloquente.
Ho visto il film in un pomeriggio in cui avevo un po’ di tempo e avevo voglia di fare una cosa intelligente.
Non mi è venuto in mente altro: non sono uscita per vedere un museo, non ho telefonato a nessuno, non ho letto un romanzo.

Ho visto un film.