CORONA BLUES, 29: IMPARA L’ARTE

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903

Elogio del maquillage. Ieri ho lavato i miei pennelli da trucco. Sono professionali, giapponesi, ce li ho da un sacco di anni ed era vero che sarebbero stati un investimento.
In questo periodo mi sono truccata solo quando sono uscita in modo serio.
Per andare a fare la fila al supermercato non mi sono truccata.
La pelle sta bene, respira, ma sta bene pure quando mi trucco, anzi, quando mi trucco finisce che la curo di più, metti, togli, idrata eccetera.
Comunque il fatto di aver provveduto al grand nettoyage mi ha dato sia il senso della primavera che quello della vita che riprende.
Ma è poi vero che la vita riprende?
La mia trasmissione di lirica sta andando in replica da due mesi. Niente male, hanno fatto una selezione delle puntate più belle, certe volte certe repliche sono degli autentici autogol, ti rendi conto che l’impressione che prima la radio fosse meglio è giusta, facevano cose di qualità superiore, con più idee dentro.
Adesso, lasciamo perdere.
L’unico problema della replica di stamattina è che c’era una lunga intervista a un soprano anche con brani di ascolto.
E la signora però è morta quattro anni fa, relativamente giovane, per una malattia breve e fulminante.
Sentirla ridere, analizzare la parte tecnica del canto, raccontare spettacoli e aneddoti mi ha dato il senso di un tempo ormai senza senso.
Passato e presente si mescolano, tutto è sospeso, non trovo più punti di riferimento.
E il futuro, pure il futuro non ha quasi più senso.

Segnali di luce. Il mio studio affaccia su una situazione molto Finestra sul cortile. Dunque, i miei dirimpettai stanno lontani. Non solo. Dei miei dirimpettai non me ne importa niente.
Stasera però mi sono ricordata che ho un dirimpettaio che da un pezzo mi fa la gibigiana.
Almeno mi pare.
Io sono miope e certo che non indosso gli occhiali quando stendo il bucato.
Il bucato lo stendo dalla finestra del mio studio.
La gibigiana, tecnicamente, è un «balenìo di luce riflesso su una superficie da uno specchio, da un vetro, da un liquido».
Insomma, ho un dirimpettaio che quando stendo il mio bucato e lui sta a casa, mi fa la gibigiana.
Almeno credo.
E poi che ne so, io sono miope.

Occhio di bue

Ma stasera il dirimpettaio si è organizzato e, mentre stendevo due tappetini della mia stanza da bagno, bianchi immacolati come devono essere, ha acceso qualcosa di più, mi è sembrato un occhio di bue da teatro.
In queste sere la città continua a essere silenziosa, chiusi tutti i locali, se vuoi uscire, stai a spasso senza avere una meta.
E poi ho sentito uno stentoreo «Ciao!».
«Ciao», ho risposto io, non so a chi e che me ne importa, stavo senza occhiali, dovevo ancora cenare e si stava facendo tardi.
Comunque, se qualcuno mi saluta, io il saluto lo ricambio.
Mi sembra il minimo, siamo in Fase 2, dunque, interlocutoria.
Figuriamoci se non interloquisco con uno che è così gentile da registrare quante volte stendo qualcosa di fuori e, addirittura, fare luce su quello che stendo.

Il Mandrione

La vita è bella (?). L’altro giorno sono andata a fare una lunga passeggiata al Mandrione.
Il Mandrione è un posto vicino a casa mia per il quale sono entrata in fissa.
C’è un acquedotto romano, una stazione di treni un po’ dimessa, c’è la memoria delle baracche, delle prostitute e di Pasolini che amava frequentare la zona.
Inoltre, c’è stata pure un’interruzione della strada, che è franata perché sotto è vuota, perché da sotto sono stati presi i materiali per la costruzione dell’acquedotto.
Quindi il traffico delle macchine è interrotto.
E me ne ero pure accorta passandoci in macchina.

Mandrione, mia foto

Ma l’altro giorno ci sono andata a piedi e la situazione era stranissima: runner, ragazzi, tossici, anziani della zona, tutti mescolati.
Pochi con le mascherine.
Di rado ho sentito in vita mia investirmi un soffio di vita così violento.
Poi ho detto però io vorrei prendere il prosecco alla spina da portarmi a casa. C’era questa rivendita davanti alla quale ho incontrato una conoscente.
Prosecco alla spina, mio Dio.
È finita con una bottiglia di plastica da un litro e mezzo bella fresca, i bicchieri usa e getta e la cartata di porchetta offerta dal titolare.
Sulla panchina di Villa Lais, con i ragazzini che, finalmente sciolti, pallidi e liberati da casa, sgroppavano come puledri nei vialetti squallidi e sdutti, ho fatto una delle cene migliori della mia vita.
Sarà stato il prosecco, oppure le considerazioni su come stai quando ti alzi la mattina.
Sei felice di vivere.
Per niente.
Che cosa c’è di bello nella vita.
Mah, forse, mangiare.
(Come gli animali).
Perché fai il lavoro che fai.
Perché dentro ci sta la vita.

Annottava.
Di brutto.
Quanto tempo era che non dicevo se non usciamo, ci chiudono dentro.

Degusta l’arte. Domani attacco un nuovo progetto professionale.
Ci tengo, è importante e lo sto curando in tutti i dettagli.
La prima lezione è pronta, immagini e tutto.
Inviate le credenziali di accesso agli iscritti.
Emozionata?
Certamente, se non lo fai per emozionarti, che lo fai a fare.
Sorbetti ho deciso di chiamare le mie lezioni e sui sorbetti sto ragionando.
Però, questa proprio non me l’aspettavo.
Tutti i collegamenti on line, lezioni, riunioni, quello che vi pare, soffrono di un leggero décalage, nel senso che le cose impiegano un po’ di secondi a succedere.
E sulla mia scrivania avevo tutti ammucchiati e aperti i libri per la lezione di domani.
Sorbetti, abbiamo detto. Ho trovato il nome.
Ho usato un testo di storia della moda superclassico, per la precisione il capitolo in cui l’autrice si occupa degli effetti delle malattie veneree e polmonari sulla moda.
Voglio fare una lezione sulla prostituzione al tempo delle città che diventano sempre più grandi sotto la spinta della rivoluzione industriale, con donne alle quali vengono dati nomi diversi, spesso garbati, graziosi, di affetto, donne che tirano a campare come possono e che certe volte ci riescono pure, diventando arte, letteratura, leggenda.
Ma questo è un discorso complesso, che faremo un’altra volta.
Oppure potreste collegarvi e partecipare alla mia lezione.
Comunque.
Volevo mettere un segno al capitolo che mi serviva, non toccavo quel libro da anni.

Paul Poiret, Sorbet, Evening Ensemble, 1913

Mi distraggo un attimo dalla riunione.
Mi guardo intorno, sulla scrivania, sfoglio qualche pagina del libro che vi ho detto.
Trovo una stampata A4, evidentemente messa da parte.
La apro.
C’era la scheda di un abito di uno dei più grandi creatori di moda, di oggetti, profumi e comunicazione davanti ai quali mi sono trovata in vita mia: Paul Poiret.
L’abito è del 1913, è stato indossato dalla moglie del sarto per la festa La milleeduesima notte ed è una sorta di tunica con una gonna impostata su un cerchio rigido.
Dell’abito sono rimasti tre esemplari, quello che vi mostro è al Victoria and Albert Museum ed è realizzato in raso nero e avorio.
Aggiungo una serie di raffinatezze date dal ricamo, dal richiamo ai petali di un fiore e dall’attenzione che Poiret ha riservato alla vestibilità, per cui pare che dentro l’abito ci si sentisse liberi (libere) in tutti i movimenti.
E qual è il nome dell’abito.
Qui non so se ho sentito una stilla di sudore gelido colarmi lungo la schiena o un soffio caldo alitarmi sul collo.
L’abito, inventariato come Evening Ensemble nel magnifico museo londinese, si chiama Sorbet.

Non credo che ci sia da aggiungere altro ai tiri che gioca il Caso.
E credo che, Caso, tiri e arte, sia arrivato il tempo, prepotente e fortunato, di degustarli.
Tutti.

2 Comments

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  1. Dolcezza da conto. La fotografia mi piace, come tutto il resto, sempre. Grazie.

    Andrea

    • Rosella Gallo

      14 maggio 2020 — 14:37

      Andrea, mi fa molto, molto piacere che il tuo occhio di artista gradisca la fotografia.
      Generoso e presente, come sempre. Grazie a te. Rosella

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