Lewis Hine, Workers on the Empire State Building, 1930

Avevo uno zio, marito della sorella di mia madre, simpatico e possibilista.
Chirurgo in una cittadina della provincia piemontese, divertente, generoso, invitava tutte le estati i nipoti nella sua bella casa al mare sulla riviera ligure.
Lì, tutto era possibile.
Tutto quello che era vietato a Roma: fumare, andare a ballare, uscire con i ragazzi più carini della spiaggia.
A Roma la spiaggia non c’è, ma avete capito il concetto.
Lui raccontava spesso una storiella esemplare.
Una signora, un po’ corrucciata, dice: «I muratori non sono più quelli di una volta. Trent’anni fa, quando passavo, mi fischiavano tutti dietro».
Più complessa di quanto non sembri, la piccola narrazione non trova del tutto riscontro nella realtà.
Sto dicendo che i muratori non smettono di guardare le donne.
Che le donne sorridono ai muratori, buttano lì un «Ciao, come va» e che con loro scambiano quattro chiacchiere.
E i muratori lanciano loro occhiate eloquenti.

Altro che fischi.

Anche da ragazza, quando frequentavo gente di tutti i tipi, le sortite con gli operai non erano frequenti.
Praticamente lontani anni luce dalla stagione della scuola, fiorivano in estate, all’interno di comitive eterogenee, dove capitava di tutto, dal giovanissimo professionista al benzinaio.
Ma non sono mai, diciamo così, uscita con un operaio.
In seguito, men che meno.
I motivi mi sfuggono, visto che li trovo simpatici e che, per esempio, mi fermo volentieri a parlare con loro.
I miei prediletti sono gli acrobati che lavorano sulla facciata dei palazzi, che non utilizzano né ponteggi né piattaforme e che, forniti di doppia fune di sicurezza, sono i fratelli degli alpinisti che scalano l’Himalaya.
Non fatemi dire castronerie, ma gli operai, almeno, fanno una cosa utile, gli alpinisti, non ne sono certa.
C’è una piccola squadra che sta lavorando su un palazzo vicino a casa mia, li vedo tutte le volte che vado in garage. Ci faccio due chiacchiere.
Ovviamente, con quello che sta a terra, visto che quello arrampicato in alto è irraggiungibile.
Spesso mi sono lasciata sfuggire espressioni di meraviglia.
La risposta è sempre stata su, su, e che ci vuole.
Appunto.
Fra loro e gli operai che hanno tirato su l’Empire State Building e che sono stati fotografati da Lewis Hine agli inizi degli anni ’30, di differenza, praticamente c’è solo il caschetto giallo.
Ma prima di tornare a questi eroi metropolitani, vi racconto la storia dell’operaio delle fogne.

Partiamo dal fatto che gli uomini dovrebbero avere dei muscoli.
Ora, i muscoli che si fanno in palestra sulle macchine sono tutti finti.
Basta guardare bene i portatori.
Una volta aspettai al semaforo che diventasse verde accanto a un incredibile Hulk che usciva da una sessione ginnica nei locali a fianco del mio supermercato.
Tutto ripulito, aveva in braccio un orrendo chihuahua.
Siccome mi scocciavo ad aspettare il verde senza fare niente, gli chiedo come si chiama quell’essere tremante con gli occhi a palla.
«Mademoiselle», mi fa lui, tenerissimo.
Traducendomi «Signorina» nel caso io fossi tonta.

Ma va’, va’.
Su.
Fammi il piacere.

Gli uomini con i muscoli veri sono gli operai.
Che li hanno anche nei punti giusti e che li usano per qualcosa di fruttuoso.

Da me, qualche tempo fa, arrivò una notizia terribile. Le fogne stavano collassando.
Fu girato anche un video, che non ho mai visto.
Fu mandato un preventivo che non mi fece dormire la notte.
Cominciarono ad arrivare le bollette del condominio. Totalmente improbabili, con l’amministratore che proponeva pure finanziamenti bancari.
Vendetti cara la pelle, pagai in ritardo e costretta, la mia idea, chiarissima, è che non posso lavorare solo per pagare il condominio.
Tanto meno i lavori delle fogne, che, però, mi riservarono una piacevole sorpresa.

Uscii da casa e lo vidi.

Impossibile non vederlo.
L’operaio delle fogne era una meraviglia: un po’ più che quarantenne, orecchino, tempie rasate, occhi nocciola, pantalonacci e canottiera molto, molto ridotta, stava infilato nella buca che lui e un collega avevano fatto davanti al giardino del mio palazzo.
Siccome, proprio come Braccio di Ferro, un altro muscolosissimo, ognuno di noi è quel che è e io sono una letterata, tutti i miei studi letterari mi vennero in soccorso, per la precisione nella persona di quel Farinata degli Uberti che Dante incontra nel Canto X dell’Inferno, con il quale il Nostro si mette a parlare, agganciato da lui.

Andrea Del Castagno, Farinata degli Uberti, 1421-57

«O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto…».
Dante si spaventa, si accosta di più a Virgilio e lui gli dice di guardare quell’uomo: «da la cintola in su tutto ‘l vedrai».
Ci avevano fatto imparare a memoria questo brano, che mi era ritornato in mente, tutto, in quella limpida mattina di autunno.

Mi fermo, dunque, davanti a quella che per Dante era un’arca e che per me è l’esubero della bolletta del condominio.

«Buongiorno».
Gli faccio con la voce delle grandi occasioni.
Lui molla la pala, esce fuori dall’avello e si mette a parlare.
Anch’egli un letterato, dovete credermi.
Un italiano limpido, perfetto, con aggettivi e sfumature sintattiche.
«State proprio malmessi» – fa lui.
«Ah, sì» – faccio io.

Sinteticamente. I lavori durarono per più di tre mesi, io pagai tutto in ritardo, ma intanto avevo fatto amicizia con Gaetano.
Così si chiamava il Farinata delle Fogne di via Clelia.
Con lui parlavo di tutto, mi organizzavo, uscivo dieci minuti prima, dall’avello dovevo passare, dicevo «Buongiorno, come va?» e lui sgorgava dalla sua fossa e mi raccontava.
Mai mi ha parlato di moglie e figli.
Mai gli ho detto quando ha finito, perché non viene a prendere un caffè da me.
Mai.

Ma parlavamo benissimo.

La cosa più divertente della vicenda è che le tre donne che frequentano il palazzo regolarmente con le quali posso parlare di uomini non raccolsero l’argomento.
Le mie due adorabili condomine, quella di sopra e quella di sotto, alla mia innocente domanda «Ma hai visto l’operaio delle fogne» risposero «No».
Ma, per caso, hai gli occhi foderati di prosciutto?

Sta lì, nella buca, ingombra pure il passaggio.
«Non ci ho fatto caso».
Ne dedussi che non tutte le donne guardano gli operai.

L’altra, la mia domestica, che saliva quando io stavo uscendo e che, quindi, passava dall’avello prima di me: «Ha visto se c’era Gaetano?».

Sconcerto e diniego.
Che orrore.
Ma come che orrore, è un uomo spettacolare.
Ma se lavora nelle fogne.
E va bene, uno gli dà una ripulita rientrando, ne conosco certi, creativi, giuristi, commercianti, che non è che la sera siano più decenti.
Niente.
Feci notare alla signora Gerardina che il suo era un pregiudizio di classe, mi rispose che lui era sporco, a me non sembrava sporco più di tanto.

Passarono i tre mesi dei lavori, con le bollette del condominio che venivano infilate regolarmente nella cassetta della posta e che io ignoravo.
Il giorno definitivo, quello del collaudo, io stavo malissimo, preda di una delle mie ricorrenti crisi di afonia, per la quale la mattina ero uscita, avevo fatto capire che ero totalmente senza voce e che quindi non potevo conversare.
Ero andata al supermercato e lì il capo magazziniere ci aveva aggiunto il carico da undici: «Mai che capitasse a mia moglie».
Come sempre quando sono senza voce, mi sentivo a un tempo come Violetta e Manon Lescaut, che cantano entrambe lo stesso sentimento: «Sola, perduta, abbandonata».
La prima, a Parigi. L’altra, in una landa desolata in America.
Piuttosto la prima, straccio per straccio, meglio nella Ville Lumière.

Gaetano mi aveva detto che avrebbero lavorato fino a sera.
Io, muta.
Io, sola e triste tutto il giorno, ogni tanto un’occhiatina dalla finestra dal balconcino.

Ma ti pare, proprio oggi.

Scende la notte, fa freddo, vedo i due operai che si sono rifugiati in un angolo del palazzo, hanno azionato la pompa del collaudo, devono star lì altre due ore a controllare l’andamento della foderatura di tutti i canali sotterranei.
Li vedo che non si scambiano nemmeno una parola.
L’inverno ormai morde.

Vado in frigorifero, tiro fuori una bottiglia di Prosecco.
Vado all’armadio dei bicchieri, prendo due flûte, non delle migliori ma comunque belle.
Vado allo sportello dei viveri, tiro fuori un grande pacco di patatine.
Vado al contenitore di salviette di carta, scelgo quelle che mi sembrano più virili, colori sobri, niente di floreale, piuttosto: geometrico.

Prendo le chiavi, scendo, i due operai stanno al di là di un canale a cielo aperto che si apre subito dopo il portoncino di ingresso del mio palazzo.
A gesti e sorrisi, dico a Gaetano di venirsi a prendere bicchieri, bottiglia e snack.
Lui salta d’un passo la fossa, mi si avvicina, prende tutto, mi guarda e mi dice «Ma signora, lei ci imbarazza».
Ridendo.
Mi chiede che ci deve fare con i bicchieri.
A gesti, ci faccia quello che vuole.
Saluto come posso, rientro.

Trovo la mattina dopo proprio sopra la mia cassetta della posta le due flûte con dentro vigorosamente infilate le salviette di carta, stropicciatissime.

Non l’ho più visto.
Ho pagato tutti i lavori all’Amministratore solo dopo una minaccia.
Ho riportato su le flûte e ammetto di averle tenute lì un paio di giorni prima di metterle nella lavastoviglie, che avrebbe fatto sparire tutte le tracce.

Il tutto, senza fischi.

Quando tirarono su l’Empire State Building eravamo in piena Depressione.
I disoccupati in America passarono rapidamente da mezzo milione a quattro, poi a quindici milioni.
Paradossalmente, la caduta fu curata da una «boom mentality», per cui sorsero da qui i grattacieli, cominciati a Manhattan nel 1927, arrivati al loro culmine nel 1929.
Vita, lavoro, fantasia, il tutto raggruppato su un fazzoletto di terra acquistato per un pugno di perline dagli Indiani.
Come si dice, un dentifricio spremuto dal tubo, questa è New York, la città di tutti i miti.
Una salita tutta verticale perché di spazio orizzontale non ce n’era, un progresso di sapore fallico: un’erezione, insomma.

Lewis Hine fotografò sul campo il miracolo, arrampicato con gli operai là in alto, tostando il pane con la fiamma ossidrica, condividendo quella vita, tramandando a noi la visione epica di una città leggendaria che stava crescendo.
L’Empire State Building: 1.250 piedi, ovvero 381 metri, tirati su in 410 giorni.
Oltre al mito originario, quello di King Kong che lo scala nella disperazione dell’amore che vogliono sottrargli e del sacrificio finale, con la più bella delle versioni, quella originale; qualche altro film girato da quelle parti; letteratura; un paio di miei ricordi personali.

E su tutto, leggero e insolente come un Icaro che vola alto senza preoccuparsi della sua sorte, solo inebriato dalla sua impresa, il giovane operaio che ondeggia sul gancio di una gru, circa un migliaio di piedi, ovvero trecento metri, sopra i marciapiedi di Manhattan, immemore degli inviti alla prudenza e di tutti i rischi che corre.

Lewis Hine, Construction Worker on the Empire State Building, 1930

Chissà se sta qui il fascino primordiale degli operai, in questo loro coraggio, in questo loro continuare a guardare le donne a oltranza, in questo loro fischiarle, almeno metaforicamente, anche dopo trent’anni.

Sarebbe contento lo zio, di essere smentito.
Innamorato della vita, del suo vino piemontese e delle bellezze che vedeva intorno, guaritore di pazienti che gli erano riconoscenti per sempre e che lo omaggiavano con ogni sorta di doni, soprattutto alimentari, certo, che si sarebbe messo a ridere di fronte agli sviluppi della sua storiella.
Anzi, sono sicura che rida anche adesso, anche lui lassù in alto, un po’ come i nostri operai di oggi, un po’ come tutti coloro che si sono staccati, in qualche modo e in ogni senso, dalla bassa limitatezza della terra.