MEA CULPA

Paul Poiret, Mea Culpa, 1922

Sto messa peggio di quella delle Spice Girls (non dico quale).
La volta che quello degli Oasis (sappiamo quale) decise di insultarla, le disse che era talmente scema che non riusciva a fare due cose insieme: se masticava una gomma americana, non riusciva a camminare.
Parimenti, io ho scoperto che se mangio, non riesco a vedere un film.
E viceversa.
Ormai ho rinunciato al vassoio davanti alla televisione, mi confondo, non seguo la trama, non capisco il sapore del petto di pollo.
Inoltre, ma questo mi sembra comprensibile, se studio devo spegnere tutte le radio, che sono sempre tutte accese.
Ho più volte detto agli studenti che non potevano studiare sentendo musica, pure con le cuffiette.
Quindi, ecco perché sono tutti somari: perché quel poco che studiano, lo studiano sentendo la musica con le cuffiette.
Senza capire niente, ve lo dico io, né dell’una cosa, né dell’altra.
Sono donna, quindi più coltellino svizzero di un uomo, però le cose serie, la professione, il film, il petto di pollo, non riesco a mescolarle.

Volendo portare acqua al mio mulino, vi dico provate a interrompere un cassiere che sta contando una mazzetta di banconote.
Quello, se non vi strafulmina sul posto, è solo perché è una persona paziente.
Ma poi ricomincia daccapo il conto.

Si vede che anche il denaro, tale e quale al film e al petto di pollo, è una cosa seria.

Se volete sapere come è finita con la carta di credito, vi dico che non è finita.
Dopo che l’hanno trovata, sono andata in banca per prenderla.
L’ho presa, ma non era attiva.
E nessuno sapeva attivarla.
A un certo momento è corsa voce che ci volesse il pin, che io non ricordavo, perché non lo utilizzavo mai con la carta precedente.
Qui, quello che apre la porta e che aveva contribuito, senza successo, a cercare la busta con dentro la mia carta, si è fatto venire un’idea geniale.
Dandomi del tu mi ha chiesto se ricordavo almeno il pin del bancomat.
Certo, mica sono scema, e ho bisogno di contante piuttosto spesso.
«Prova con quello» mi ha detto, dandomi di gomito.
Mica scherzava, poteva essere che funzionasse.
Sono rientrata, ho trovato il pin, quell’altro, che avevo messo da parte, e l’ho usato quando sono andata a fare un acquisto.
La carta di credito era bloccata.
Ho chiamato il numero verde, in circa quarantacinque minuti sono riuscita a capire che la banca non aveva segnalato che mi era stata consegnata la carta, quindi la carta era bloccata perché una carta che non si sa dove sta, forse in viaggio fra il cliente e l’agenzia, è meglio che non sia libera.
«Adesso lei finisce che si arrabbia», mi ha detto quello, gentilissimo.
Ma no, perché, ormai ci sto prendendo gusto.
E lui mi ha preso un appuntamento perché dovevo tornare in banca.
In sintesi, tre andate in banca, di cui due su appuntamento, per avere una carta di credito che avrei dovuto trovare nella cassetta della posta.
Poi dice che loro hanno troppi appuntamenti e non riescono a gestirli tutti.
E da diciassette giorni sono senza carta di credito.
Meglio, così spendo meno soldi.

Ho portato al mio sarto del Bangladesh un paio di blue jeans leggeri, i Pedal Pusher della Closed, che avevano più di vent’anni e uno sbrego sulla gamba destra in alto che faceva paura.
Me li ha restituiti tutti rammendati.
Ha voluto cinque euro.
Gli ho detto adesso me li metto per altri dieci anni.
Lui mi ha detto sì, però ogni tanto me li riporti e ci faccio un altro rammendo.
Ho tirato fuori dal guardaroba (io ho una stanza guardaroba, piccola, quattro metri quadri, ma autentica, insomma, ci si può infilare dentro e ha anche una finestra, piccola anch’essa ma graziosissima), tutti i blue jeans rotti che mi piangeva il cuore buttare.
Sono tutti Closed e in Italia non si trovano più, gli ultimi, infatti, li ho comprati in internet.
Su tre paia, ho anticipato io che uno era irrecuperabile ma che poteva essere utilizzato per le toppe: alcuni punti, per esempio le tasche, erano ancora decenti.
Gli altri due saranno pronti mercoledì prossimo e mi costeranno più o meno otto euro.
Ho detto al sarto mi raccomando, non toccarmi gli orli, perché sfilacciati stanno bene, i blue jeans nuovi che mi compro, pure quelli sani, sono sempre un po’ sbrindellati, un po’ grunge e un po’ trash, lo dice pure l’etichetta.
Lui mi ha detto di non preoccuparmi.
«Fanno moda», ha sorriso.
Che cosa faccia moda in Bangladesh, mi sfugge.
Comunque, con le ultime toppe e gli ultimi rammendi, riesco a resistere un altro po’, visto che ancora non si parla di andare a comprare un nuovo paio di blue jeans a Parigi.

Più sfono  e non ci arrivo con la voce, più mi commuove la voce altrui.
Stamattina, in macchina, mi sono accorta che mi scendevano le lacrime a sentire la sequenza degli otto/nove do dell’aria Ah, mes amis! de La fille du régiment di Donizetti.
L’invidia, quella buona.
Perché c’è anche, strano a dirsi, un’invidia buona.

Il tenore è Juan Diego Flóres, perfettamente nella parte.

Ho visto un film bellissimo
Vi dico anche come ci sono arrivata: leggendo un’intervista rilasciata da un’agente, con l’apostrofo, quindi, una donna, che si occupa di voci di autori emergenti o confermati.

Ariane, l’Agente

Impegnata socialmente e politicamente, con un vivo interesse «per la storia delle donne e le lotte a essa associate», dice delle cose oltremodo avvincenti, per esempio che, dopo aver studiato filosofia, si è inventata un mestiere, quello, appunto, di agente letterario, lavorando presso una piccola casa editrice e facendo emergere «ciò che non è ancora stato detto, letto, sentito».
Racconta, inoltre, ed è un racconto bellissimo, che il suo percorso non è stato una linea dritta: «l’inatteso, le esperienze e gli incontri l’hanno modellato».
Ce ne era più che a sufficienza per meritarsi la mia ammirazione e la mia fiducia.
Il bacio della pantera, in originale Cat People, è un film del 1942, se vogliamo di serie B, un thriller suggerito, un horror fatto di elusioni, in cui la protagonista, Irena, una disegnatrice serba che vive a New York, è convinta delle veridicità della leggenda, diffusa presso la sua gente, secondo la quale qualunque intimità con un uomo che lei ama la trasformerebbe in una belva.

Jacques Tourneur, Cat People, 1942

L’idea è geniale, non freddezza, bensì distacco per timore di troppo calore.
In un elegantissimo bianco e nero, in cui la pantera dello zoo di New York brilla per la sontuosità del suo pelo notturno, i protagonisti lavorano, cenano in un ristorante delizioso con una camerierina con il fiocco inamidato del grembiule che le incornicia il sedere, fumano, bevono, abitano in case di lusso.
C’è anche lo psicoanalista, con i baffetti e il bastone da passeggio che nasconde una lama.
C’è il marito che a un certo punto si scoccia.
C’è una rivale.
C’è una piscina in un albergo, quindi un costume da bagno e un corpo di donna che lo abita e il corpo della donna è diverso da quelli che vanno di moda adesso.
Tutto è in chiaroscuro, niente è evidente, gli effetti speciali sono solo suggeriti da ombre e da ruggiti.

Rialto Theatre a New York, prima del film Cat People, 1942

Il film ha avuto un grosso successo all’epoca e mi chiedo come io avrei potuto incontrarlo senza un suggerimento geniale.

L’agente lo definisce «complesso, femminista e innovatore» e ha ragione, non avrei saputo trovare una formula più adatta.
Ma tutto questo è anche la prova di quanto il cinema, come del resto l’arte tutta, sia un pensiero profondo del quale noi cogliamo solo la superficie.
In questo modo, un film girato per il grande pubblico, ma capace di raggiungere «nuove altezze di sofisticazione e di mistero», mostra perfettamente la strada.
Quello che si può fare anche oggi, i suggerimenti che si possono ascoltare, gli incontri che possono accadere, le insinuazioni, quelle utili, che si possono afferrare.
In questa fase, così dicono, di ritorno alla vita, so che non tornerò al cinema perché al cinema da un pezzo non ci andavo.
Non solo, le sale chiuse mi hanno confermato che posso fare a meno di loro, non so se devo scusarmi, non so se sia una colpa, so che, come per tutti i tradimenti, la responsabilità è al 90% del tradito, quindi, in questo caso, della sala.
Sporca, male insonorizzata, con l’odore di umido se sta sotto il livello della strada.
Senza parcheggio.
Di rado con i film che vorrei vedere.
Praticamente sempre doppiati e con il pubblico che chiacchiera.
Figuriamoci adesso, dopo mesi di silenzio, quante chiacchiere ci sono da fare.

Non so che cosa stia accadendo, intuisco che a me stanno capitando cose nuove, sento che devo rivedere e ripensare tutto, spero, superata l’estate, di essere guarita con la voce, confido di poter ricominciare.

In tutto questo, vale il ritaglio che ho stampato e che ho messo sul frigorifero all’inizio dell’anno, con la promessa del mio editore prediletto (presso il quale, guarda tu le coincidenze, lavora l’agente letterario di cui sopra): «Degli anni folli ci attendono e con loro le feste, gli incontri, i libri e tanto amore ancora».
Escludendo le feste, delle quali mi importa poco o niente, tutto il resto mi sta bene e ci credo.

Sperando di essere all’altezza, capace di fare io e di apprezzare quello che fanno gli altri, comunque sempre aperta e disponibile, fosse solo a vedere, perché mi fido, i film che mi consigliano.
Pure quelli così detti di serie B, come tutte le cose secondarie, capaci di aprire porte nascoste, alle quali non si fa caso da subito; di fronte ai quali aggiustare la nostra classifica di valori; attraverso la lettura dei quali capire quante cose ci stanno nella vita, nascoste negli interstizi, dimenticate, pronte, a un cenno, ovvero a una visione, a saltare fuori: come nuove, potenti, stimolanti come poco altro, suscettibili di storie ulteriori.

Che, promesso, appena vissute, anzi, mentre le vivo, andrò a raccontarvi.

2 Comments

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  1. leggerti è come fare una conversazione rara, spumeggiante impegnativa ed esaltante.
    Si parte sull’ottovolante. Sai come cominci ma non sai mai come andrai a finire.
    Speciale anche la scelta dell’aria.
    Grazie

    • Rosella Gallo

      1 giugno 2021 — 17:58

      Che bello. E tu pensa che io scrivo sul blog principalmente per sfogarmi, tu guarda quante cose ci trovi dentro tu, come se ci fosse un’autonomia, una vita propria nella scrittura e come se ognuno di noi trovasse nella vita qualcosa che lo riguarda da vicino, proprio come se quel qualcosa fosse stato pensato proprio per lui. Grazie, Marina, della lettura e di queste parole. Sono contenta che l’aria sia di tuo gradimento, c’è dentro allegria e, soprattutto, un talento così grande (di tutti, del compositore e del cantante) che mi dà più gusto apprezzarlo insieme.

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